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Pane e coltello

mediterreaneita, storie Mar 19, 2020

La storia del pane e più in generale dei cereali si intreccia con quella dei popoli del mediterraneo e, nello specifico, delle popolazioni del sud.  

Nell’immaginario collettivo, il sud Italia, è luogo di partenza per eccellenza. Dal sud si parte per qualsiasi cosa: per studiare e crearsi un futuro sognando un ritorno che spesso non ci sarà, si parte per curarsi a causa di anni e anni di attese inutili e cattive pratiche che hanno impoverito sia fisicamente che emotivamente le strutture ospedaliere e le strutture morali, si parte per cercare un lavoro (cercare e non necessariamente trovare) che possa sostenere un idea di normalità che mai come in questo periodo storico diventa oggetto di desiderio.

E’ così che la storia del pane diventa la celebrazione di chi resta. Di chi viene raccontato romanticamente come tanto prossimo alla “natura” da esserne praticamente appendice. Il “restare” come innesco di ingegno e creatività. In realtà è proprio in questi contesti dove la natura è da sempre stata assoggettata per garantire sussistenza, salute, vita civica in contrapposizione all’agire nelle città antropizzate  dove non si addomestica più la natura ma paesaggi già modificati.

I cereali che le civiltà rurali utilizzavano per il proprio sostentamento erano neri, acidi, duri. Prodotti che non avevano mercato e quindi utilizzati per il consumo casalingo. Come fattore positivo, questi cereali, erano maggiormente conservabili, valore enorme per una civiltà che dipendeva dalle condizioni meteorologiche. Carestie, annate magre e altre problematiche di questo genere erano frequenti e di conseguenza, le scorte, garantivano la vita e venivano preservate e “venerate”. Il cibo conservato prende un valore religioso, mistico.

Il ricordo folcloristico-religioso è pieno di Santi che espletano i loro miracoli attraverso il pane e i cereali. Tanti sono i santi calabro-greci che hanno a che fare con questo ambito della vita rurale: San Fantino “il Cavallaro” che triturava il grano di notte per i poveri, San Saba e le cinque moltiplicazioni (frumento, vino, pesce e due di olio), San Nicodemo, San Leo o San Giovanni Theriste noto come il “mietitore di Stilo”.

Il pane consumato abitualmente era un pane “miscitato” con cereali minori, ghiande, erbe, paglia, segatura di cortecce. 

“Pane duro, aspro, vergogna, segno di miseria estrema per chi andava a comprarlo, cruscoso, di farina di scarto, pesante, immangiabile, di vil prezzo, di cereali tristissimi prodotti in terre tristissime, meschino per persone meschine, delicato, bianco, fresco, benedizione, affiorato, profumato, odoroso, da signora, della messa, della festa, ammogliato, asciutto, tosto, agro, stantio, ammuffito, acido, amaro, orribile, duro più di una pietra, che non scende, che ci vogliono denti fortissimi a masticarlo”

                                                                  Vito Teti

                                                             Pietre di pane

Si racconta di pane fosse talmente duro che i contadini che lo portavano nei campi per cibarsene durante il lavoro raschiavano la superficie della pagnotta con un temperino per poi raccogliere tra le mani la “limatura” di pane e farla scivolare in bocca. 

Il pane, negli anni, diventa marcatore sociale segnando una linea di desiderio contrapposto tra ceti sociali.

Nicola Misasi (Cosenza, 4 maggio 1850 – Roma, 23 novembre 1923) scriveva nel 1883:” si diventa ghiottoni in punto di morte: si vuole la leccornia, si vuole il cibo squisito, si vuole andare al mondo dirà con la bocca dolce; il contadino che muore, vuole gustarla anche lui questa ineffabile felicità del signore, del ricco, del “galantuomo”, un pezzo di pane, bianco come neve, leggero, poroso, morbido, rosolato nella crosta.” Sono tante le storie di contadini che portavano i loro figli nelle case dei padroni per far sentire il profumo di pane bianco, un pane mai visto.In diverse regioni del sud si era soliti dire “lo misero a pane bianco” quando, in punto di morte, veniva concesso questo lusso anche al povero bracciante.

Appena le condizioni sociali cambiarono, i contadini, lasciarono senza troppa nostalgia il consumo di pane di sussistenza. Al tempo stesso, il pane nero cambiò unità significante. Negli anni Sessanta, Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 – Parigi, 26 marzo 1980), notò come il passaggio da un pane all’altro “corrisponde a un cambiamento di significati sociali: il pane nero è divenuto paradossalmente segno di raffinatezza”. La nuova nostalgia per i “tempi del pane” va sicuramente colta per la propensione al non spreco, alla cura delle eccedenze e degli avanzi (concetto recente come avremo modo di approfondire prossimamente) e non di certo per un ritorno improbabile al tempo che fu.

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marco ambrosino
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marco ambrosino

Marco Ambrosino, classe 1984, comincia ad occuparsi di cucina all’età di 14 anni. Dopo anni passati nei ristoranti della sua isola di origine Procida, ha l’occasione di lavorare nelle cucine del Melograno di Libera Iovine. Sono seguite esperienze in Spagna e in Danimarca per poi fermarsi a Milano dove dal 2014 è lo chef del ristorante “28 posti”.

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