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Il Maiale. Una dicotomia gastronomica ancestrale.

mediterreaneita, ricette, storie Ago 24, 2020

Il maiale (Sus scrofa domesticus), detto anche suino o porco è stato addomesticato sin dagli albori dell’umanità, veniva allevato già circa 6000 anni fa nel territorio della Mesopotamia. Nelle varie culture presenti sulla terra il maiale viene percepito e “vissuto” in maniera dicotomica. Infatti se per alcune culture e religioni viene quasi “glorificato” in quanto cibo confortevole e capace di sfamare in periodi di difficoltà, in altre culture e religioni viene “stigmatizzato” poiché ritenuto impuro e proibito.

Nel caso della cultura e religione musulmana ed ebraica la carne di suino venne condannata in quanto sia il Corano sia il Levitico la vietavano. Aldilà delle norme religiose che ne inibivano l’utilizzo alla base ci furono sicuramente anche cause di tipo economico-logistiche. Il maiale veniva percepito come un animale sporco che amava il fango, che si nutriva di escrementi, scarti e qualora affamato anche dei propri cuccioli. Era un animale che non si adattava ai climi caldi in quanto bisognoso di ripari come boschi e di grandi quantità di acqua per crescere bene, inoltre la sua facilità nel riprodursi non lo rendeva accettabile e gestibile per la cultura ebraica e musulmana. Per questo a lui furono preferiti ovini, caprini e bovini in quanto ruminanti quindi mangiatori di erba ed arbusti, alimenti non commestibili per l’uomo che quindi non avrebbe dovuto spartirli con le bestie, inoltre la produzione di latte era economicamente rilevante per l’uomo e la crescita di questi animali non era legata esclusivamente all’alimentazione, cosa invece molto importante per la crescita del maiale.

Sorte ben diversa trovò invece il maiale nella cultura romana, in alcuni scritti troviamo testimonianza di come l’animale venisse usato come dazio ai Romani. Infatti questi animali, che venivano allevati dal “porcaro” allo stato semi brado nei boschi di querce, faggi, lecci o con fitta vegetazione e ricchi di funghi e tartufi presenti nel sud della nostra penisola, erano utilizzati spesso come moneta poiché ritenuti molto pregiati. Nel “De Re Rustica” Varrone scrive “Lucanicam dicunt quod milites a Lucanis didicerint” (Chiamano “lucanica” una carne tritata insaccata in un budello, perché i nostri soldati hanno appreso il modo di prepararla dai Lucani). Tale preparazione risultava molto apprezzata dalle truppe romane in quanto offriva un pasto facilmente trasportabile e di lunga conservazione, infatti dopo un’asciugatura veloce al fumo dei fuochi che portava ad un’essicazione del prodotto bastava una veloce stagionatura per rendere l’insaccato trasportabile, pronto al consumo e gustoso. Questo insaccato lo ritroviamo anche nel “De Re Coquinaria” di Apicio, grande gastronomo romani, che ne descriveva minuziosamente la ricetta: “Si schiacciano del pepe, del comino, della peverella (santoreggia), della ruta, del prezzemolo, dei “condimenti”, bacche di alloro, garum (salsa di Apicio). Si aggiunge la carne ben tritata, che si triterà una seconda volta insieme al garum, del pepe in grani, una gran quantità di lardo e semi di finocchio, riempi un budello lungo e stretto e sì sospenda al fumo”.

Anche nella cultura popolare enella religione cristiana il maiale trova il suo posto, infatti viene associato come animale di compagnia di Sant’Antonio Abate (protettore degli animali che si festeggia il 17 gennaio). Nella tradizione popolare si racconta che il maialino di Antonio fu un fido aiutante nel rubare il fuoco al diavolo per scaldare gli uomini e sempre la tradizione racconta inoltre che alla sua morte il maialino scavò una fossa con il muso in cui poi depose la salma richiudendo la buca. 

Aldilà del racconto, in passato, essere un “porcaro” veniva ritenuta un’attività di rilievo e considerata con estremo rispetto. In alcune zone d’Italia come la Basilicata, l’Umbria, l’Emilia Romagna il maiale è stato, e continua ad essere, un animale fondamentale per l’economia e lo sviluppo. Anche nella nostra cultura ovviamente al maiale viene associata una parte negativa, basti pensare ai modi di dire dispregiativi che sono associati all’animale per descrivere alcuni comportamenti ritenuti sconvenienti o poco appropriati del nostro agire.

Sta di fatto che nella cultura mediterranea e del sud Italia il maiale da sempre è stato un caposaldo nel sostentamento familiare. La crescita del maiale era fondamentale, tutti i membri della famiglia dovevano nutrire l’animale ed avere una cura quasi sacra per la bestia, solitamente acquistata in una fiera di paese alla fine dell’estate e cresciuto fino al sopraggiungere dell’inverno.

I giorni prima dell’uccisione si preparavano gli utensili in modo quasi maniacale, i coltelli dovevano essere affilati, le ceste e le “bagnarole” lavate e disinfettate, si capiva chi avrebbe partecipato e si iniziavano a dividere i compiti.

La giornata dell’uccisione iniziava alle prime luci dell’alba con un caffè e un bicchiere di anice per riscaldare il corpo e lo spirito e poi iniziava la giornata che sfiorava quasi la ritualità. Tralasciando la parte dell’uccisione, che conservava un rispetto verso l’animale (data dalla consapevolezza del sacrificio a fin di nutrimento), il resto della giornata era scandito da tagli, sezionamenti, lavorazioni che avrebbero portato all’utilizzo dell’intero animale perché come si dice in alcune parti “del maiale non si butta via nulla, neanche l’anima”.

Ad oggi in alcuni casi, forse troppi, manca quel rispetto verso gli animali ed il loro sacrificio. 

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Antonio Labriola
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Antonio Labriola

Classe ’86. Lucano di origine e piemontese d’adozione. La mia esperienza con la cucina inizia dall’infanzia e, come molti ragazzi del sud, dallo stare la domenica a casa della nonna. Lì ho iniziato ad imparare le prime ricette che poi ho portato sempre nel mio bagaglio personale in giro con me. Mi sono laureato in psicologia non abbandonando mai la cucina che mi ha aiutato nel mantenermi agli studi. Poi ho frequentato un corso professionale di cucina presso il Gambero Rosso. Così sono entrato in cucina per restarci (attualmente ricopro la carica di docente chef della Città del Gusto di Torino del Gambero Rosso). Ho avuto esperienze in diversi ristoranti, collaborazioni con chef stellati e ho ricoperto ruoli organizzativi in manifestazioni legate al food&beverage portando con me il mio bagaglio sia di cuoco sia di psicologo. Inoltre ho avviato con dei clleghi colleghi, un’attività di consulenza, chef a domicilio e gestione eventi. Credo che ogni piatto racconti una parte profonda di chi lo cucina e aiuti ad esprimere sensazioni sopite e potenzialità nascoste. Ultimamente mi sto concentrando sulla gestione dei rapporti tra sala e cucina e le loro relative mansioni ed ho “coniato” il concetto di MEP mind en place (con la testa in cucina). Questo concetto ingloba tutte quelle strategie psicologiche e accorgimenti da usare per migliorare la comunicazione, le relazioni, e la performance lavorativa di un’attività ristorativa e i suoi servizi. Da qui insieme alla dottoressa Sonia Rotondo abbiamo iniziato a sviluppare un progetto di consulenza “su misura” per le attività ristorative che ha come obiettivo quello di “disinnescare le emozioni” e rendere meno stressante la vita lavorativa all’interno di ristoranti, alberghi e strutture ricettive.

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