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Il girovago del Mar Mediterraneo

isole, mare, mediterreaneita, porti, storie Mar 19, 2021

“Il Mediterraneo? Un’immensa spugna che si è lentamente imbevuta di ogni conoscenza” F. Braudel

Il Mare Nostrum diviene inevitabilmente scenario, sfondo ad una nuova storia da raccontarvi, ad un nuovo viaggio nelle sue acque, ad una perenne e incessante commistione di popoli, di porti, di lingue, di storie che seppur variegate e “diverse”, ti riconducono ad elementi comuni, ad una matassa che per quanto intricata, è fonte di unione, di ricchezza, di scoperta, e di memoria da difendere e condividere ad ogni costo.

I legumi sono stati per secoli la “carne” dei poveri, fonte di proteine e di sussistenza nella civiltà rurale del Mezzogiorno, che si sfamava di razioni cotte in abbondante acqua nella quale si bagnava qualche fetta di pane a volte duro e ammuffito.

Ma il mio personale viaggio di oggi nel Mediterraneo vuole raccontarvi di come una miscela di farina di ceci, acqua, sale e olio trovi la sua dimora in numerose città bagnate da questo mare.

Le prime fonti che riportano sformati di purea di legumi risalgono già in epoca greca e romana, così come la loro presenza nell’alimentazione del mondo arabo.
Difatti i commerci con il Medio Oriente ad opera della Repubblica Marinara di Genova portarono l’abitudine all’impiego di questo legume in epoca medioevale.

Ma la leggenda popolare vuole che questo piatto abbia visto la luce nel 1284, nel momento in cui Genova sconfisse Pisa nella Battaglia della Meloria.
Le galee genovesi, cariche di vogatori prigionieri si imbatterono in una tempesta dinanzi alle coste livornesi.
Una delle navi subì dei danni, imbarcando acqua nella stiva dove erano contenute le scorte di cibo per l’equipaggio.
I ceci, mischiati con l’acqua salata giunta nella stiva e l’olio rovesciatosi da uno dei barili crearono una poltiglia decisamente poco invitante.
Passati i giorni, e finite le provviste, ai marinai vennero date scodelle di questa “purea” di ceci e olio.
Alcuni marinai rifiutarono il pasto lasciandolo al sole ma il giorno seguente, spinti dai morsi della fame, si avvicinarono alla scodella scoprendo che la poltiglia era diventata succulenta e croccante.
Rientrati a terra, i genovesi sfruttarono la scoperta per sostituire l’essiccazione al sole con la cottura al forno dandole il nome di “oro di Pisa” per scherno agli sconfitti.
Il nome venne poi modificato in “farinata”.

In Liguria, la “farinata” ha trovato poi la sua collocazione nelle Sciamadde (fiammate) ovvero le antiche friggitorie di strada.
Un bancone di marmo, un forno a legna da cui teglie fumanti di farinata escono, piastrelle in maiolica, una mensola e qualche sgabello.
La diffusione lungo le coste del Mediterraneo viaggia di pari passo con le variazioni dialettali e linguistiche che ne modificano il nome.
Nel genovese diventa fainâ de çeixi, nello spezzino fainà, nel savonese si trasforma in turtellassu.

In Costa Azzurra diventa socca dal dialetto nizzardo; a Tolone diventa cade.

In Piemonte è ugualmente diffusa la farinata, grazie ai commerci del territorio alessandrino (legato sino al 1859 alla Liguria), astigiano e torinese con Genova, prendendo il nome di bela càuda.

Le influenze genovesi la portano in Sardegna e nel territorio di Bonifacio in Corsica dove diventa fainè (o fainò nel territorio di Carloforte) e venduta nelle tipiche fainerie (o tascèlli nel tabarchino).

La comunità etnica dei genovesi di Gibilterra, giunta nel XVI secolo sul territorio d’oltremare dedicandosi ad attività commerciali e svolgendo attività di pesca d’alto mare, l’ha diffusa e reso piatto tipico con il nome di calentita.
In Marocco settentrionale, prende il medesimo nome, ma con l’aggiunta delle uova nell’impasto di farina di ceci, acqua, sale e olio.

L’immigrazione italiana in America ha contribuito ad una ulteriore espansione dove è diventato piatto tipico in Uruguay e Argentina con il nome di fainà ad opera degli immigrati genovesi.

In Toscana è prodotto tipico e diffuso sul territorio costiero.
Farinata nel territorio della Lunigiana, calda calda sulla costa della provincia di Massa Carrara, cecìna nel Pisano e in Versilia accompagnata dal doratino o stiacciatina tonda.

A Livorno diventa torta, e dati i rapporti campanilistici con la vicina Pisa, guai a chiamarla cecìna!
Nella città labronica diventa companatico del classico 5&5.
La torta, sfornata fumante dai forni a legna dei tipici tortai, diventa il companatico di un panino salato detto “francesino” o una focaccina tonda detta “schiaccia” accompagnato da una spolverata di pepe, le melanzane sotto pesto livornese e un bicchiere di spuma bionda.

Perchè 5&5?
Negli anni ’30 del secolo scorso il prezzo del pane e della torta di ceci erano di 5 centesimi di lire, pertanto la richiesta era “vorrei 5 di torta e 5 di pane”.

Fino ad ora abbiamo parlato di questa miscela di farina di ceci, sale, olio e acqua versata in particolari teglie di rame e cotta in antichi forni rigorosamente a legna, ma nel palermitano il composto viene cotto sul fuoco con l’aggiunta del prezzemolo, steso su di un piano, tagliato e fritto.

Sono le panelle, che finiscono dentro il tipico cimino, panino croccante ricoperto di semi di sesamo con abbondante sale, pepe e limone… il pane e panelle lo spuntino tipico del palermitano.
Il giorno di Santa Lucia (13 dicembre) diventano dolci con l’aggiunta di burro o strutto, zucchero e farcite di crema pasticcera. Ma ritornando nuovamente in Liguria, scopriamo che questa frittella di ceci viene chiamata panissa.

Se il Mediterraneo, come sosteneva Braudel, è una spugna che si è imbevuta di ogni conoscenza, così la farina di ceci impregnatasi di acqua marina e olio in quella galea genovese, è diventata la base a questo racconto fatto di rotte marittime, di commercio di popoli, di sussistenza, di tradizione, di storia.

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Livio Improta
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Livio Improta

Dopo i suoi esordi tra le torri medioevali di San Gimignano al “San Martino 26”, sotto la guida dello chef Ardit Curri, intraprende il suo percorso “stellato” alla corte di Raffaele Vitale in quella “Casa del Nonno 13” che ha segnato il suo cammino. Polignano a Mare e Firenze due tappe all’insegna del cibo di strada; dai panini di mare del progetto Pescaria, a quelli con il lampredotto della Ditta Nigro presso il Mercato Centrale di Firenze. Scelte dettate da amore per le tradizioni regionali italiane che lo hanno spinto a raggiungere lo storico Palazzo Vescovile di Conversano nel ruolo di sous-chef presso il ristorante Pashà. Archiviati i due anni alla corte di Maria Cicorella, dal principio del 2018 una nuova storia da raccontare, questa volta nella cucina “diretta”, consapevole e sperimentale dello chef Antonio Bufi presso il Ristorante Le Giare di Bari. Oggi fa parte della squadra di Giuseppe Iannotti al Kresios di Telese Terme

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